Discriminazione di genere sul lavoro: passa anche dai nomi delle professioni?
Il linguaggio che usiamo ogni giorno, quindi anche nel contesto lavorativo, non è neutrale. La lingua italiana non lo è, a differenza di altre lingue che non prevedono il genere maschile o femminile.
Le nostre scelte linguistiche possono influenzare la percezione del valore e della competenza di uomini e donne. Ad esempio, usare il maschile per riferirsi a professioni di rilievo e il femminile per ruoli subordinati può rinforzare inconsciamente stereotipi di genere. Colpa dell’italiano? No, l’italiano non discrimina di per sé, ma può essere discriminatorio l’uso che ne facciamo ogni giorno e che ci portiamo dietro, oltre che dentro. Vediamo insieme come i pregiudizi di genere si manifestano nel mondo del lavoro attraverso il linguaggio e come le aziende possono fare scelte linguistiche più inclusive.
La parola è materializzazione
Il tema del “Sessismo nella lingua italiana” è stato affrontato già nel 1968 nel saggio omonimo di Alma Sabatini per la Presidenza del Consiglio dei ministri. Lei le chiamava “raccomandazioni”, ed erano alternative compatibili con la nostra lingua per evitare forme sessiste e dare visibilità linguistica alle donne perché, come diceva lei “la parola è materializzazione” e “l’uso di un termine anziché un altro comporta la modificazione nel pensiero e nell’atteggiamento di chi lo pronuncia e quindi di chi lo ascolta.”
La lingua, dunque, influenza il nostro pensare e il nostro agire e le parole sono materia in continuo cambiamento che suscita spesso atteggiamenti resistenti, come nel caso dei femminili professionali.
I nomi delle professioni al femminile
Viviamo di generalizzazioni, cioè di scorciatoie che velocizzano la categorizzazione di persone e situazioni. Questo, in ambito lavorativo, può tradursi in una definizione dei ruoli molto chiara e limitante: il segretario è al vertice di un partito, la segretaria organizza il calendario e porta il caffè. Com’è ovvio, tutto ciò influisce sulla percezione delle competenze, come se il termine al femminile identificasse una "variante" meno autorevole. Tant’è che quando le professioni al maschile si declinano al femminile possono assumere un significato equivoco. Come suggeriva Paola Cortellesi in un famoso monologo del 2018: “Un massaggiatore è un cinesiterapista. Una massaggiatrice? […]”
Sembra che quando una donna assume ruoli più ambiziosi e diversi da quelli che siamo soliti attribuirle, si fa così fatica a pensarci che non vengono le parole per nominarla. Motivo per cui alcune professioni che sono da sempre al femminile non provocano fastidio: la maestra, la sarta, la cuoca, la cassiera, la casalinga. Queste sì, mentre la ministra, l’assessora, la professora, l’arbitra, la soldata, suonano male.
Il ruolo della tecnologia
Anche se il collegamento non è immediato, un ruolo decisivo nel ridurre i pregiudizi di genere può averlo anche la tecnologia con i suoi strumenti di intelligenza artificiale. Un esperimento del 2023 ha dimostrato che, almeno fino all’anno scorso, chiedere all’intelligenza artificiale di generare l’immagine di una “persona altamente qualificata che svolge un intervento chirurgico”, restituiva solo immagini di uomini. Chiedere poi (in inglese per evitare la declinazione al maschile o al femminile) di suggerire immagini di nurse – infermiera/i – restituiva solo immagini di donne.
Per cercare di ovviare a questi vuoti, sono stati fatti degli esperimenti concreti per sensibilizzare sul tema dei femminili professionali. Ci ha provato l’Università di Lipsia che, su proposta di un docente di fisica, ha iniziato a chiamare anche gli uomini professoresse e a trasformare tutti i titoli accademici al femminile. Una soluzione forse scomoda ed estrema, ma che ci dà la misura di quanto siamo inconsapevoli delle nostre abitudini linguistiche quotidiane.
Dimmi che lavoro fai e ti dirò chi sei
Diversi studi hanno dimostrato che le persone tendono a valutare diversamente le competenze di una persona a seconda del titolo che gli viene assegnato.
Adottare un linguaggio rispettoso del genere significa creare un ambiente in cui le persone possono essere valorizzate e riconosciute per le proprie competenze. Certo, l’uso dei femminili professionali è, e deve rimanere, una scelta a discrezione delle donne, ma adottare delle linee guida per un linguaggio rispettoso delle persone, dovrebbe essere un impegno da prendere molto seriamente.
Esempi virtuosi
Molte aziende stanno contribuendo al cambiamento, soprattutto grazie a strumenti come la Certificazione per la parità di genere che implica la valutazione di molti parametri che possano definire l’ambiente lavorativo come equo da tutti i punti di vista. In questo senso, adottare un linguaggio che include è un passo fondamentale.
Airbnb, per esempio, ha lanciato una campagna interna per promuovere il linguaggio inclusivo, offrendo ai propri dipendenti corsi di formazione sull'uso di termini inclusivi e sulla consapevolezza dei pregiudizi linguistici. Questa iniziativa ha contribuito a migliorare la consapevolezza sui temi di genere e ha facilitato un cambiamento nel linguaggio usato dalle persone che ci lavorano.
Anche Europ Assistance ha implementato linee guida per un linguaggio inclusivo e senza stereotipi di genere in tutte le sue comunicazioni, sia interne che esterne. L'azienda ha sviluppato un manuale che fornisce indicazioni su come evitare un linguaggio discriminatorio, assicurandosi che chiunque si senta rappresentato e rispettato.
Partiamo dai job title
Un aspetto interessante riguarda come i job title vengano declinati nelle offerte di lavoro. Spesso, nei job crawler e nei siti aziendali, si tende a utilizzare il maschile generico – manager, ingegnere, direttore – che però potrebbe influenzare la percezione delle candidate e ridurre la loro propensione a candidarsi. Alcune aziende, invece, iniziano ad adottare strategie più inclusive, come l’uso di doppie forme (es. "avvocato/avvocata") o formule esplicite come "ruolo aperto a professionisti e professioniste". In alcuni contesti, viene introdotto il simbolo "@" o "x" per neutralizzare il genere (es. "candidat@ ideale"), anche se queste soluzioni sollevano questioni di leggibilità, oltre che di accessibilità, e non sono accettate in ambito normativo.
Tra gli esempi più virtuosi troviamo anche realtà che si distinguono per approcci innovativi e usano il linguaggio inclusivo nei titoli e anche nella descrizione delle competenze richieste, evitando termini connotati che potrebbero dissuadere le donne (come "aggressivo" o "deciso"), preferendo un tono di voce e scelte lessicali che non escludono.
Rendere i job title inclusivi non è solo una scelta di linguaggio: è un passo concreto verso l’equità e la rappresentazione di genere nel mercato del lavoro. Le aziende che adottano queste pratiche dimostrano di essere consapevoli del loro ruolo nel plasmare una società più inclusiva e meritocratica.
Perché declinare i mestieri al femminile?
Qualcuno dice che declinare i mestieri al femminile è cacofonico. La questione è più semplice di quel che sembra: l’introduzione di nuovi femminili per le professioni non è sinonimo di decadenza della lingua o degenerazione del politically correct. È diretta conseguenza della necessità di chiamare per nome ingegnere, architette, sindache, ministre e assessore che oggi occupano questi ruoli. Altrettanto semplice è la resistenza nei confronti della questione: più che linguistica, la sua percezione ha fondamenti sociali e culturali e spiega il motivo per cui l’istruttore e l’istruttrice ci suonano bene, mentre sindaca sarebbe sbagliato. E comunque: esiste anche la professione di fabbra, lo dice la Crusca!